Mangiare è un piacere e una necessità. In natura le necessità appagate generano piacere proprio per spingerci a soddisfare un bisogno, mentre quanto può esserci dannoso genera dolore o avversione. Nel caso del cibo il piacere sta proprio nelle complesse sensazioni generate dal “buon sapore” di un certo alimento che ci piace e quindi introduciamo nell’organismo, mentre l’avversione è nel “cattivo sapore” di un altro alimento che, una volta assaggiato non ci piace e quindi ci rifiutiamo di introdurre (Saper et al., 2002).
Quello che viene concentrato nella parola “sapore” è il risultato di un insieme di sensazioni tra loro connesse che il cibo induce e che possiamo schematicamente suddividere in sensazioni fisiche (temperatura, consistenza, umidità, frizione) (1), sensazioni chimiche (gusto e olfatto) e sensazioni chemestetiche (2).
Ciascuna di queste sensazioni è rilevata da specifici recettori, complesse molecole – o gruppi di molecole – proteiche che agiscono come sensori biologici, la cui funzione è alla base del sistema di comunicazione chimica che coordina le funzioni di tutti i gruppi cellulari di cui siamo costituiti, oltre che generare e trasmetterci la rappresentazione del mondo esterno in cui viviamo attraverso i sensi: caratteristiche fisiche (udito, vista, tatto) e composizione chimica (gusto e olfatto).
Anche se comunemente “gusto” è usato come sinonimo di “sapore”, in senso stretto questo termine andrebbe utilizzato solo per le sensazioni chimiche rilevate da cellule specializzate presenti nella cavità orale, le cellule gustative, sulle quali sono presenti specifici recettori sensibili alle molecole contenute negli alimenti. Quindi il senso del gusto è incaricato di valutare il contenuto di un certo alimento riconoscendo le sostanze chimiche (perciò si parla di chemorecezione) di cui è costituito, permettendoci di distinguere i cibi ricchi di nutrienti indispensabili per il nostro sostentamento (e quindi accettati), da quelli potenzialmente tossici o avariati (e quindi rifiutati).
Da una semplice analisi possiamo dire che le sostanze dolci sono in genere molto gradite e che di esse fanno parte gli zuccheri, importante fonte energetica; che il sapore carneo è in genere apprezzato e gli amminoacidi che costituiscono le proteine sono fondamentali per il nostro metabolismo (sono la sola fonte di N, non presente nei carboidrati e nei lipidi); che il sapore grasso ci piace e che i grassi sono una notevole fonte energetica.
D’altra parte, le sostanze amare possono essere accettate, ma solo in bassissime concentrazioni.
La maggior parte delle sostanze amare sono prodotte dalle piante, le quali hanno evoluto la strategia di accumulare metaboliti secondari amari per difendersi dagli erbivori e dai patogeni, anche se molti organismi, tra cui l’uomo, si evolvono imparando a detossificarli (3). Infine anche il gusto acido, che può essere segnale di cibo avariato, può essere tollerato e gradito solo fino a un certo punto.
Quello che viene concentrato nella parola “sapore” è il risultato di un insieme di sensazioni tra loro connesse che il cibo induce e che possiamo schematicamente suddividere in sensazioni fisiche (temperatura, consistenza, umidità, frizione) (1), sensazioni chimiche (gusto e olfatto) e sensazioni chemestetiche (2).
Ciascuna di queste sensazioni è rilevata da specifici recettori, complesse molecole – o gruppi di molecole – proteiche che agiscono come sensori biologici, la cui funzione è alla base del sistema di comunicazione chimica che coordina le funzioni di tutti i gruppi cellulari di cui siamo costituiti, oltre che generare e trasmetterci la rappresentazione del mondo esterno in cui viviamo attraverso i sensi: caratteristiche fisiche (udito, vista, tatto) e composizione chimica (gusto e olfatto).
Anche se comunemente “gusto” è usato come sinonimo di “sapore”, in senso stretto questo termine andrebbe utilizzato solo per le sensazioni chimiche rilevate da cellule specializzate presenti nella cavità orale, le cellule gustative, sulle quali sono presenti specifici recettori sensibili alle molecole contenute negli alimenti. Quindi il senso del gusto è incaricato di valutare il contenuto di un certo alimento riconoscendo le sostanze chimiche (perciò si parla di chemorecezione) di cui è costituito, permettendoci di distinguere i cibi ricchi di nutrienti indispensabili per il nostro sostentamento (e quindi accettati), da quelli potenzialmente tossici o avariati (e quindi rifiutati).
Da una semplice analisi possiamo dire che le sostanze dolci sono in genere molto gradite e che di esse fanno parte gli zuccheri, importante fonte energetica; che il sapore carneo è in genere apprezzato e gli amminoacidi che costituiscono le proteine sono fondamentali per il nostro metabolismo (sono la sola fonte di N, non presente nei carboidrati e nei lipidi); che il sapore grasso ci piace e che i grassi sono una notevole fonte energetica.
D’altra parte, le sostanze amare possono essere accettate, ma solo in bassissime concentrazioni.
La maggior parte delle sostanze amare sono prodotte dalle piante, le quali hanno evoluto la strategia di accumulare metaboliti secondari amari per difendersi dagli erbivori e dai patogeni, anche se molti organismi, tra cui l’uomo, si evolvono imparando a detossificarli (3). Infine anche il gusto acido, che può essere segnale di cibo avariato, può essere tollerato e gradito solo fino a un certo punto.
Ogni sensazione gustativa comporta tre eventi: la generazione dello stimolo nella cavità orale, la sua traduzione in stimolo nervoso che va al cervello e l’interpretazione e l’elaborazione in termini sensoriali ed edonici.
Dunque, il quadro già molto articolato delle varie sensazioni gustative viene ulteriormente complicato dal fatto che tutte queste informazioni vengono poi trasmesse ed elaborate dal cervello, dando vita a fenomeni che sono oggetto di studio di neurofisiologia e psicologia. Questo articolo tratta principalmente del primo evento: l’interazione tra una molecola sapida (che ha sapore) con le strutture preposte a rilevarla.
Dunque, il quadro già molto articolato delle varie sensazioni gustative viene ulteriormente complicato dal fatto che tutte queste informazioni vengono poi trasmesse ed elaborate dal cervello, dando vita a fenomeni che sono oggetto di studio di neurofisiologia e psicologia. Questo articolo tratta principalmente del primo evento: l’interazione tra una molecola sapida (che ha sapore) con le strutture preposte a rilevarla.
Anatomia del gusto
I recettori del gusto si trovano all’apice di cellule gustative strutturate a dare i bottoni gustativi, i quali sono distribuiti nelle diverse papille della lingua e del palato molle.
Le papille circumvallate si trovano al fondo della lingua e nell’uomo contengono circa un migliaio di bottoni gustativi; le papille foliate sono presenti al limite latero-posteriore della lingua e contengono una dozzina di bottoni gustativi, mentre le papille fungiformi contengono pochi bottoni gustativi e si trovano principalmente sulla punta e, in quantità minore, fino ai 2/3 della lingua. Le papille filiformi (le più abbondanti) non hanno bottoni gustativi, ma sono coinvolte nelle percezioni tattili. Recenti dati molecolari e funzionali hanno dimostrato che le diverse papille non sono selettive per un certo sapore e quindi la vecchia mappa dei sapori fondamentali va abbandonata.
I recettori del gusto si trovano all’apice di cellule gustative strutturate a dare i bottoni gustativi, i quali sono distribuiti nelle diverse papille della lingua e del palato molle.
Le papille circumvallate si trovano al fondo della lingua e nell’uomo contengono circa un migliaio di bottoni gustativi; le papille foliate sono presenti al limite latero-posteriore della lingua e contengono una dozzina di bottoni gustativi, mentre le papille fungiformi contengono pochi bottoni gustativi e si trovano principalmente sulla punta e, in quantità minore, fino ai 2/3 della lingua. Le papille filiformi (le più abbondanti) non hanno bottoni gustativi, ma sono coinvolte nelle percezioni tattili. Recenti dati molecolari e funzionali hanno dimostrato che le diverse papille non sono selettive per un certo sapore e quindi la vecchia mappa dei sapori fondamentali va abbandonata.
Quanti gusti abbiamo?
Se chiedessimo a chi legge di elencare i gusti principali, con ogni probabilità tutti (o quasi) citerebbero dolce, amaro, salato e acido.
In passato, come riporta in un altro articolo di questa rivista Yann Grappe, ne venivano individuati molti di più. Come mai queste differenze?
A parte l’importante componente culturale del gusto, che lo collega a modi e mode che cambiano nello spazio e nel tempo, questa differenza è principalmente dovuta al fatto ora generalmente accettato (e supportato da evidenze scientifiche) che, malgrado siamo capaci di percepire un’ampia gamma di entità chimiche, qualitativamente esse suscitano un numero limitato di sensazioni gustative, i gusti fondamentali, attivando recettori specifici.
Ad oggi i gusti cosiddetti fondamentali sono cinque: dolce, umami, salato, amaro e acido (4). Dolce, salato, amaro e acido non hanno bisogno di particolari descrizioni in quanto familiari per tutti. Umami, invece, potrebbe essere un termine sconosciuto ai più: è derivato dalla parola giapponese umai, che significa delizioso, ed è il sapore associato all’amminoacido L-glutammato, contenuto negli estratti di carne e nella salsa di soia, cui conferisce il particolare sapore. Proprio per la sua origine e la diffusione di alimenti fermentati che hanno questo sapore caratteristico, esso è un termine entrato a far parte dei descrittori comunemente usati nei paesi dell’Asia orientale, mentre nei paesi occidentali è raramente utilizzato, malgrado alimenti quali formaggi stagionati, pomodoro e derivati siano ricchi di L-glutammato e quindi umami. Nella cucina occidentale probabilmente il miglior esempio di questo gusto è quello rappresentato dai brodi di carne.
È anche da notare che, benché il recettore che risponde agli stimoli umami sia stato identificato, clonato e funzionalizzato, alcuni autori hanno suggerito che il glutammato sia da considerare più un esaltatore di sapore che non un sapore in sé e che la sensazione che suscita sia dovuta prevalentemente alla convergenza di percorsi gustativi e olfattivi nel cervello (McCabe et al., 2007).
Ma se il gusto serve per identificare i nutrienti in quello che mangiamo, come mai manca il gusto fondamentale per il sapore grasso quando proprio i grassi coprono circa il 40% dell’assunzione giornaliera di calorie nei paesi occidentali? Per lungo tempo si è pensato che il loro gradimento fosse legato solo alla consistenza che conferiscono ai cibi e il loro consumo alla piacevole sensazione conseguente. L'esistenza di un vero e proprio sensore, solo ipotizzata in passato, è stata dimostrata recentemente nel ratto (Laugerette et al., 2006). Combinando approcci genetici, morfologici, comportamentali e fisiologici è stata individuata la glicoproteina multifunzionale CD36 (chiamata anche FAT o “fatty acid transporter”) come possibile recettore per il grasso. Il meccanismo proposto è il seguente: cellule della lingua producono un enzima in grado di idrolizzare le molecole di trigliceridi, liberando acidi grassi, veri attivatori del recettore.
Per tali ragioni abbiamo specificato che “ad oggi” i gusti fondamentali sono cinque, in quanto le recentissime e le future scoperte certamente porteranno a cambiare di nuovo lo scenario di un settore che, per quanto indagato da molto tempo, ha subito una drastica accelerazione solo da quando la sequenza del genoma (umano e di altri mammiferi) è divenuta di pubblico dominio. Ciò ha consentito l’identificazione e successiva clonazione dei geni che codificano i recettori del sapore: nel 2000 quelli dell’amaro (Chandrashekar et al., 2000; Adler et al., 2000; Matsunami et al., 2000) e nel 2001 quelli di dolce e umami (Kitagawa et al., 2001; Li et al., 2001; Max et al. 2001; Montmayeur et al., 2001; Nelson et al., 2001; Sainz et al., 2001).
I recettori del gusto sono proteine transmembrana in grado di connettere l’esterno della cellula gustativa a contatto con la cavità buccale – dove si trovano le sostanze sapide – con l’interno della cellula nella quale, in seguito all’attivazione del recettore stesso, avvengono altri cambiamenti che generano lo stimolo nervoso che viene poi trasmesso al cervello.
Ci sono due tipi di recettori trasmembrana importanti per il gusto che differiscono nel modo in cui il segnale è trasmesso all’interno della cellula e tradotto in stimolo nervoso: i canali ionici e i recettori accoppiati a proteine G (G Protein Coupled Receptors) generalmente indicati come GPCRs (5).
Un canale ionico può essere esemplificato come un cancello che può aprirsi lasciando passare specifici ioni in accordo con il loro gradiente di concentrazione (cioè da dove sono più concentrati a dove lo sono meno).
In seguito all’accumulo di questi ioni dentro la cellula, si ha una cascata di reazioni che porta alla liberazione di neurotrasmettitori, i quali raggiungono i neuroni che, infine, trasmettono il segnale al cervello.
Appartengono a questa classe il recettore per il salato (sensibile allo ione Na+) e il recettore per l’acido (sensibile allo ione H+). Nel caso del salato sono stati suggeriti diversi possibili recettori, ma a tutt’oggi l’identità del recettore del gusto salato è ancora speculativa e controversa (Heck et al., 1984; Avenet et al., 1988; Lyall et al., 2004).
Lo scenario per il gusto acido non era meno articolato, ma recenti studi hanno ristretto la ricerca, indicando un canale ionico del tipo TRP (Transient Receptor Potential) come possibile recettore per l’acido (Ishimaru et al., 2006; Huang et al., 2006).
Maggiori sono le informazioni e le evidenze circa i recettori di dolce, amaro e umami, che appartengono alla classe delle GPCRs. Queste proteine formano nella cellula degli aggregati complessi. Al legarsi di un composto sapido un enzima si attiva producendo un secondo messaggero all’interno della cellula gustativa. In questo caso è il cambiamento di concentrazione del secondo messaggero a provocare la cascata di reazioni che porta alla liberazione di neurotrasmettitori e quindi alla generazione dello stimolo nervoso.
Per quanto riguarda il gusto dolce, è da notare che i composti dolci presenti in natura non sono molti, ma sono strutturalmente molto diversi tra loro, andando da piccole molecole quali zuccheri semplici, disaccaridi, amminoacidi e peptidi, alle proteine (vi sono proteine, quindi macromolecole, contenute in alcuni frutti che sono dolci, quali brazzeina, taumatina e monellina). A questi si aggiungono alcuni composti di sintesi e loro derivati appartenenti ad altre classi di composti organici che pure sono dolci: saccarina, ciclammato, acido sucrononico per citarne alcuni.
Questa grande variabilità strutturale dei composti dolci, unita al fatto che siamo in grado di distinguere tra sostanze dolci (riusciamo a distinguere il dolce del saccarosio da quello di un dolcificante), ha per anni alimentato la discussione se vi fosse un solo recettore in grado di legare tutti questi composti o più recettori. Il dubbio ha trovato una risposta solo dopo il 2001: infatti ad oggi è stato identificato un solo recettore per il sapore dolce, formato da due proteine (T1R2 e T1R3) che solo quando formano un dimero (quindi una supermolecola formata dalle due subunità T1R2 e T1R3) sono in grado di rispondere a tutte le sostanze dolci con cui il recettore è stato testato (6). Esso è in grado di fare ciò in quanto presenta diversi siti di legame che possono ospitare i vari ligandi (Xu et al., 2004; Jiang et al., 2005), ma è anche stato suggerito che uno stesso sito possa allocare molecole strutturalmente diverse (Morini et al., 2005).
Inoltre è stato dimostrato che è sempre il recettore T1R2-T1R3 a essere coinvolto nell’azione di sostanze in grado di inibire la percezione del sapore dolce, come il lactisolo, il quale sembra legarsi nella parte transmembrana del recettore stesso, impedendone il corretto funzionamento (Max et al., 2005; Winning et al., 2005). Il quadro fino a ora delineato ha anche permesso di speculare su un altro fenomeno particolarmente importante: la sinergia che alcuni composti dolci esercitano quando usati in miscele. Abbiamo infatti suggerito (Morini et al., 2005) che un composto è attivo se si lega al suo sito di legame dando una certa risposta in termini di dolcezza relativa (7); ma, se nella cavità buccale è presente un altro composto che può legarsi a un sito diverso, la contemporanea occupazione dei due siti nel recettore porta all’esaltazione della risposta in modo sinergico. Questo fenomeno è particolarmente importante perché permette di usare quantità minori di sostanze dolcificanti per ottenere una stessa dolcezza relativa.
Il recettore del gusto umami è anch’esso un dimero, in analogia con quello del sapore dolce. Addirittura una subunità è in comune: infatti il recettore dell’umami è cositutito da T1R1 e T1R3. I composti in grado di stimolare questo recettore nell’uomo non sono molti: l’L-glutammato e l’L-aspartato. Anche nucleotidi purinici quali IMP e GMP (inosina-5’-monofosfato e guanosina5’-monofosfato) hanno un blando gusto umami, ma soprattutto esercitano una notevole sinergia con l’L-glutammato. Tale fatto è stato scoperto e utilizzato dall’industria alimentare nella formulazione dei dadi ben prima dell’identificazione del recettore specifico.
A differenza del gusto dolce e umami, che si sono evoluti per selezionare positivamente un numero limitato di molecole, il gusto amaro ha dovuto assolvere al compito di prevenire l’ingestione di un numero molto elevato di composti tra loro diversi strutturalmente. Altra differenza rispetto al gusto dolce è che tutti questi composti evocano la stessa sensazione che descriviamo semplicemente come amaro. Per il gusto amaro sono stati identificati finora circa 30 recettori appartenenti alla classe delle GPCR, indicati con T2R. Questi recettori sono alquanto diversi tra loro, con una variabilità negli amminoacidi che li compongono che va dal 10 al 75%. È proprio questa variabilità che consente a solo 30 recettori di rispondere a migliaia di composti amari strutturalmente diversi (ogni recettore risponde a un certo numero di composti). I vari recettori probabilmente usano anche diversi sistemi per tradurre la risposta sensoriale in stimolo nervoso, ma questi meccanismi non sono ancora stati elucidati con certezza.
Se chiedessimo a chi legge di elencare i gusti principali, con ogni probabilità tutti (o quasi) citerebbero dolce, amaro, salato e acido.
In passato, come riporta in un altro articolo di questa rivista Yann Grappe, ne venivano individuati molti di più. Come mai queste differenze?
A parte l’importante componente culturale del gusto, che lo collega a modi e mode che cambiano nello spazio e nel tempo, questa differenza è principalmente dovuta al fatto ora generalmente accettato (e supportato da evidenze scientifiche) che, malgrado siamo capaci di percepire un’ampia gamma di entità chimiche, qualitativamente esse suscitano un numero limitato di sensazioni gustative, i gusti fondamentali, attivando recettori specifici.
Ad oggi i gusti cosiddetti fondamentali sono cinque: dolce, umami, salato, amaro e acido (4). Dolce, salato, amaro e acido non hanno bisogno di particolari descrizioni in quanto familiari per tutti. Umami, invece, potrebbe essere un termine sconosciuto ai più: è derivato dalla parola giapponese umai, che significa delizioso, ed è il sapore associato all’amminoacido L-glutammato, contenuto negli estratti di carne e nella salsa di soia, cui conferisce il particolare sapore. Proprio per la sua origine e la diffusione di alimenti fermentati che hanno questo sapore caratteristico, esso è un termine entrato a far parte dei descrittori comunemente usati nei paesi dell’Asia orientale, mentre nei paesi occidentali è raramente utilizzato, malgrado alimenti quali formaggi stagionati, pomodoro e derivati siano ricchi di L-glutammato e quindi umami. Nella cucina occidentale probabilmente il miglior esempio di questo gusto è quello rappresentato dai brodi di carne.
È anche da notare che, benché il recettore che risponde agli stimoli umami sia stato identificato, clonato e funzionalizzato, alcuni autori hanno suggerito che il glutammato sia da considerare più un esaltatore di sapore che non un sapore in sé e che la sensazione che suscita sia dovuta prevalentemente alla convergenza di percorsi gustativi e olfattivi nel cervello (McCabe et al., 2007).
Ma se il gusto serve per identificare i nutrienti in quello che mangiamo, come mai manca il gusto fondamentale per il sapore grasso quando proprio i grassi coprono circa il 40% dell’assunzione giornaliera di calorie nei paesi occidentali? Per lungo tempo si è pensato che il loro gradimento fosse legato solo alla consistenza che conferiscono ai cibi e il loro consumo alla piacevole sensazione conseguente. L'esistenza di un vero e proprio sensore, solo ipotizzata in passato, è stata dimostrata recentemente nel ratto (Laugerette et al., 2006). Combinando approcci genetici, morfologici, comportamentali e fisiologici è stata individuata la glicoproteina multifunzionale CD36 (chiamata anche FAT o “fatty acid transporter”) come possibile recettore per il grasso. Il meccanismo proposto è il seguente: cellule della lingua producono un enzima in grado di idrolizzare le molecole di trigliceridi, liberando acidi grassi, veri attivatori del recettore.
Per tali ragioni abbiamo specificato che “ad oggi” i gusti fondamentali sono cinque, in quanto le recentissime e le future scoperte certamente porteranno a cambiare di nuovo lo scenario di un settore che, per quanto indagato da molto tempo, ha subito una drastica accelerazione solo da quando la sequenza del genoma (umano e di altri mammiferi) è divenuta di pubblico dominio. Ciò ha consentito l’identificazione e successiva clonazione dei geni che codificano i recettori del sapore: nel 2000 quelli dell’amaro (Chandrashekar et al., 2000; Adler et al., 2000; Matsunami et al., 2000) e nel 2001 quelli di dolce e umami (Kitagawa et al., 2001; Li et al., 2001; Max et al. 2001; Montmayeur et al., 2001; Nelson et al., 2001; Sainz et al., 2001).
I recettori del gusto sono proteine transmembrana in grado di connettere l’esterno della cellula gustativa a contatto con la cavità buccale – dove si trovano le sostanze sapide – con l’interno della cellula nella quale, in seguito all’attivazione del recettore stesso, avvengono altri cambiamenti che generano lo stimolo nervoso che viene poi trasmesso al cervello.
Ci sono due tipi di recettori trasmembrana importanti per il gusto che differiscono nel modo in cui il segnale è trasmesso all’interno della cellula e tradotto in stimolo nervoso: i canali ionici e i recettori accoppiati a proteine G (G Protein Coupled Receptors) generalmente indicati come GPCRs (5).
Un canale ionico può essere esemplificato come un cancello che può aprirsi lasciando passare specifici ioni in accordo con il loro gradiente di concentrazione (cioè da dove sono più concentrati a dove lo sono meno).
In seguito all’accumulo di questi ioni dentro la cellula, si ha una cascata di reazioni che porta alla liberazione di neurotrasmettitori, i quali raggiungono i neuroni che, infine, trasmettono il segnale al cervello.
Appartengono a questa classe il recettore per il salato (sensibile allo ione Na+) e il recettore per l’acido (sensibile allo ione H+). Nel caso del salato sono stati suggeriti diversi possibili recettori, ma a tutt’oggi l’identità del recettore del gusto salato è ancora speculativa e controversa (Heck et al., 1984; Avenet et al., 1988; Lyall et al., 2004).
Lo scenario per il gusto acido non era meno articolato, ma recenti studi hanno ristretto la ricerca, indicando un canale ionico del tipo TRP (Transient Receptor Potential) come possibile recettore per l’acido (Ishimaru et al., 2006; Huang et al., 2006).
Maggiori sono le informazioni e le evidenze circa i recettori di dolce, amaro e umami, che appartengono alla classe delle GPCRs. Queste proteine formano nella cellula degli aggregati complessi. Al legarsi di un composto sapido un enzima si attiva producendo un secondo messaggero all’interno della cellula gustativa. In questo caso è il cambiamento di concentrazione del secondo messaggero a provocare la cascata di reazioni che porta alla liberazione di neurotrasmettitori e quindi alla generazione dello stimolo nervoso.
Per quanto riguarda il gusto dolce, è da notare che i composti dolci presenti in natura non sono molti, ma sono strutturalmente molto diversi tra loro, andando da piccole molecole quali zuccheri semplici, disaccaridi, amminoacidi e peptidi, alle proteine (vi sono proteine, quindi macromolecole, contenute in alcuni frutti che sono dolci, quali brazzeina, taumatina e monellina). A questi si aggiungono alcuni composti di sintesi e loro derivati appartenenti ad altre classi di composti organici che pure sono dolci: saccarina, ciclammato, acido sucrononico per citarne alcuni.
Questa grande variabilità strutturale dei composti dolci, unita al fatto che siamo in grado di distinguere tra sostanze dolci (riusciamo a distinguere il dolce del saccarosio da quello di un dolcificante), ha per anni alimentato la discussione se vi fosse un solo recettore in grado di legare tutti questi composti o più recettori. Il dubbio ha trovato una risposta solo dopo il 2001: infatti ad oggi è stato identificato un solo recettore per il sapore dolce, formato da due proteine (T1R2 e T1R3) che solo quando formano un dimero (quindi una supermolecola formata dalle due subunità T1R2 e T1R3) sono in grado di rispondere a tutte le sostanze dolci con cui il recettore è stato testato (6). Esso è in grado di fare ciò in quanto presenta diversi siti di legame che possono ospitare i vari ligandi (Xu et al., 2004; Jiang et al., 2005), ma è anche stato suggerito che uno stesso sito possa allocare molecole strutturalmente diverse (Morini et al., 2005).
Inoltre è stato dimostrato che è sempre il recettore T1R2-T1R3 a essere coinvolto nell’azione di sostanze in grado di inibire la percezione del sapore dolce, come il lactisolo, il quale sembra legarsi nella parte transmembrana del recettore stesso, impedendone il corretto funzionamento (Max et al., 2005; Winning et al., 2005). Il quadro fino a ora delineato ha anche permesso di speculare su un altro fenomeno particolarmente importante: la sinergia che alcuni composti dolci esercitano quando usati in miscele. Abbiamo infatti suggerito (Morini et al., 2005) che un composto è attivo se si lega al suo sito di legame dando una certa risposta in termini di dolcezza relativa (7); ma, se nella cavità buccale è presente un altro composto che può legarsi a un sito diverso, la contemporanea occupazione dei due siti nel recettore porta all’esaltazione della risposta in modo sinergico. Questo fenomeno è particolarmente importante perché permette di usare quantità minori di sostanze dolcificanti per ottenere una stessa dolcezza relativa.
Il recettore del gusto umami è anch’esso un dimero, in analogia con quello del sapore dolce. Addirittura una subunità è in comune: infatti il recettore dell’umami è cositutito da T1R1 e T1R3. I composti in grado di stimolare questo recettore nell’uomo non sono molti: l’L-glutammato e l’L-aspartato. Anche nucleotidi purinici quali IMP e GMP (inosina-5’-monofosfato e guanosina5’-monofosfato) hanno un blando gusto umami, ma soprattutto esercitano una notevole sinergia con l’L-glutammato. Tale fatto è stato scoperto e utilizzato dall’industria alimentare nella formulazione dei dadi ben prima dell’identificazione del recettore specifico.
A differenza del gusto dolce e umami, che si sono evoluti per selezionare positivamente un numero limitato di molecole, il gusto amaro ha dovuto assolvere al compito di prevenire l’ingestione di un numero molto elevato di composti tra loro diversi strutturalmente. Altra differenza rispetto al gusto dolce è che tutti questi composti evocano la stessa sensazione che descriviamo semplicemente come amaro. Per il gusto amaro sono stati identificati finora circa 30 recettori appartenenti alla classe delle GPCR, indicati con T2R. Questi recettori sono alquanto diversi tra loro, con una variabilità negli amminoacidi che li compongono che va dal 10 al 75%. È proprio questa variabilità che consente a solo 30 recettori di rispondere a migliaia di composti amari strutturalmente diversi (ogni recettore risponde a un certo numero di composti). I vari recettori probabilmente usano anche diversi sistemi per tradurre la risposta sensoriale in stimolo nervoso, ma questi meccanismi non sono ancora stati elucidati con certezza.
A ciascuno il suo
È esperienza comune il fatto che non tutti percepiscono i gusti nello stesso modo: c’è chi è goloso e chi no, chi lo è più di dolci, chi di salato, chi ama il sapore amaro di certe verdure o della birra e chi riesce a bere un caffè solo dopo abbondante aggiunta di zucchero in grado di mascherare il suo sapore originario. Tutto ciò è in relazione alla variabilità tra individui, all’età e a fattori ambientali.
La variabilità tra individui (polimorfismo) è stata messa in relazione con la sensibilità all’amaro di certe sostanze quali la feniltiocarbamide (PTC) e il 6-n-propiltiouracile (PROP), dovuta alla presenza e funzionalità di un particolare recettore dell’amaro, il TAS2R38. Si è scoperto che chi è sensibile a queste due sostanze presenta una maggiore densità di papille fungiformi (Duffy et al., 2004) e quindi è in grado di percepire maggiormente sia l’amaro che il dolce (Prutkin et al., 2000).
Per quanto riguarda il gusto grasso si è evidenziato, per ora solo nel ratto, che la stimolazione linguale di CD36 da parte di acidi grassi influenza la fisiologia comportamentale, mentre la disattivazione del gene CD36 elimina completamente la preferenza spontanea per il grasso e i cambiamenti nelle secrezioni gastrointestinali mediati dalla somministrazione orale di lipidi (Laugerette et al., 2006). Quindi i dati sul ratto suggeriscono che un’alterazione del sistema di percezione del grasso possa aumentare il rischio di obesità.
Sarà una magra consolazione, ma… golosi si nasce?
Non è difficile notare come i bambini abbiano una sensibilità particolare al dolce, al grasso e al salato, con forte repulsione per l’amaro e l’astringente, fatto che rende difficile far accettare loro le verdure (polifenoli, flavonoidi, isoflavoni, terpeni e glucosinolati, metaboliti secondari delle piante che spesso, come detto, sono amari o tannici). È stato dimostrato come l’elaborazione avversiva verso questi sapori diminuisca sia con l’età sia con l’educazione del gusto, grazie all’esposizione (ecco cosa sono i fattori ambientali) ad alimenti che li contengono (Mennella et al., 2005). Anche i cibi tradizionali – in particolare le piante non domesticate, alle quali, tra l’altro, sono spesso riconosciute proprietà medicinali – sono connotati da particolari sapori che li rendono unici, ma anche graditi solo a chi è stato abituato ad assumerli.
Questo margine di possibilità nell’educare il gusto è particolarmente importante in quanto è stato dimostrato (Dinehart et al., 2006) come la percezione individuale di dolce e amaro associata all’assunzione di vegetali sia la principale forza motrice al consumo dei vegetali stessi, favorendo o meno il consumo di cibi ricchi di micronutrienti e antiossidanti che il nostro organismo necessita con l’invecchiamento e ai quali di recente la scienza si sta notevolmente interessando (Drewnowski et al., 2000).
Tutto quanto impariamo dunque sarà ricordato, anche nei nostri geni, contribuendo così all’evoluzione della specie.
Il problema è che i nostri sensi si sono evoluti meno velocemente di quanto sia cambiato il modo di approvvigionarci, di mangiare e di vivere. Dobbiamo capire questo e investire nell’educare il gusto di conseguenza, per non morire a causa di quello che fino a ora ci ha tenuto in vita.
È esperienza comune il fatto che non tutti percepiscono i gusti nello stesso modo: c’è chi è goloso e chi no, chi lo è più di dolci, chi di salato, chi ama il sapore amaro di certe verdure o della birra e chi riesce a bere un caffè solo dopo abbondante aggiunta di zucchero in grado di mascherare il suo sapore originario. Tutto ciò è in relazione alla variabilità tra individui, all’età e a fattori ambientali.
La variabilità tra individui (polimorfismo) è stata messa in relazione con la sensibilità all’amaro di certe sostanze quali la feniltiocarbamide (PTC) e il 6-n-propiltiouracile (PROP), dovuta alla presenza e funzionalità di un particolare recettore dell’amaro, il TAS2R38. Si è scoperto che chi è sensibile a queste due sostanze presenta una maggiore densità di papille fungiformi (Duffy et al., 2004) e quindi è in grado di percepire maggiormente sia l’amaro che il dolce (Prutkin et al., 2000).
Per quanto riguarda il gusto grasso si è evidenziato, per ora solo nel ratto, che la stimolazione linguale di CD36 da parte di acidi grassi influenza la fisiologia comportamentale, mentre la disattivazione del gene CD36 elimina completamente la preferenza spontanea per il grasso e i cambiamenti nelle secrezioni gastrointestinali mediati dalla somministrazione orale di lipidi (Laugerette et al., 2006). Quindi i dati sul ratto suggeriscono che un’alterazione del sistema di percezione del grasso possa aumentare il rischio di obesità.
Sarà una magra consolazione, ma… golosi si nasce?
Non è difficile notare come i bambini abbiano una sensibilità particolare al dolce, al grasso e al salato, con forte repulsione per l’amaro e l’astringente, fatto che rende difficile far accettare loro le verdure (polifenoli, flavonoidi, isoflavoni, terpeni e glucosinolati, metaboliti secondari delle piante che spesso, come detto, sono amari o tannici). È stato dimostrato come l’elaborazione avversiva verso questi sapori diminuisca sia con l’età sia con l’educazione del gusto, grazie all’esposizione (ecco cosa sono i fattori ambientali) ad alimenti che li contengono (Mennella et al., 2005). Anche i cibi tradizionali – in particolare le piante non domesticate, alle quali, tra l’altro, sono spesso riconosciute proprietà medicinali – sono connotati da particolari sapori che li rendono unici, ma anche graditi solo a chi è stato abituato ad assumerli.
Questo margine di possibilità nell’educare il gusto è particolarmente importante in quanto è stato dimostrato (Dinehart et al., 2006) come la percezione individuale di dolce e amaro associata all’assunzione di vegetali sia la principale forza motrice al consumo dei vegetali stessi, favorendo o meno il consumo di cibi ricchi di micronutrienti e antiossidanti che il nostro organismo necessita con l’invecchiamento e ai quali di recente la scienza si sta notevolmente interessando (Drewnowski et al., 2000).
Tutto quanto impariamo dunque sarà ricordato, anche nei nostri geni, contribuendo così all’evoluzione della specie.
Il problema è che i nostri sensi si sono evoluti meno velocemente di quanto sia cambiato il modo di approvvigionarci, di mangiare e di vivere. Dobbiamo capire questo e investire nell’educare il gusto di conseguenza, per non morire a causa di quello che fino a ora ci ha tenuto in vita.
Note al testo
1) La presenza di determinati tipi di sostanze quali i polifenoli, classe alla quale appartengono i tannini, riduce le proprietà lubrificanti della saliva e quindi l’astringenza viene percepita come la frizione tra due superfici non lubrificate.
2) Le sensazioni chemestetiche sono sensazioni gustative indotte chimicamente che non implicano l’attivazione dei recettori del gusto e dell’olfatto. In questo caso si tratta di altri recettori che possono essere attivati sia dalla temperatura (stimolo fisico) che da sostanze contenute in alcuni alimenti: il recettore dei vanilloidi TRPV1 è sensibile a temperature maggiori di 43°C e alla capsaicina, il composto responsabile del sapore piccante del peperoncino, mentre il TRPM8 è attivato da stimoli freddi (temperature comprese tra 8 e 28°C) e dal mentolo. Perciò la chemestesi può essere definita come l’attivazione chimica di recettori per stimoli fisici, i quali segnalano perciò un inesistente aumento (piccante) o abbassamento (fresco) di temperatura.
3) Oltre 2500 piante producono glucosidi cianogenici amari. Alcuni di essi contenuti nella manioca, ad esempio, sono tossici sia per l’uomo che per il parassita della malaria. L’uomo ha imparato a trattare la manioca prima del consumo al fine di renderla edibile, ma la detossificazione è raramente completa. Il recettore per l’amaro che riconosce queste sostanze è mutato e poco attivo (Soranzo et al., 2005) nelle popolazioni che vivono nell’Africa sub-sahariana, dove la malaria è endemica; ciò fa sì che l’amaro di queste piante sia meglio tollerato favorendone il consumo, il che conferisce una certa resistenza verso la malaria.
4) Utilizzo l’espressione “gusto fondamentale” entrata ormai nell’uso, ma sono promotrice dell’abbandono di questa dizione.
5) Di nuovo, è stata la clonazione molecolare che, grazie alla sequenza amminoacidica, ha permesso di classificare in modo molto più dettagliato queste proteine, fornendo le percentuali di omologia come unità di misura delle somiglianze tra i recettori, nonché di scandagliare il genoma umano alla ricerca di ipotetici nuovi recettori.
6) È da notare che di questo recettore, così come di quello per l’umami e di quelli per l’amaro (sono più di uno), si conosce solo la sequenza degli amminoacidi che li costituiscono e non la loro struttura tridimensionale.
7) La dolcezza relativa di un determinato composto viene calcolata preparando soluzioni del composto in esame a concentrazione nota e confrontandole (assaggiandole) con una soluzione standard di saccarosio al 3%. La soluzione del composto in esame viene diluita fino a quando risulta isodolce a quella del saccarosio 3%. Se, ad esempio, per ottenere la stessa dolcezza dello standard la soluzione è 100 volte più diluita dello standard, il composto in esame avrà una dolcezza relativa pari a 100.
2) Le sensazioni chemestetiche sono sensazioni gustative indotte chimicamente che non implicano l’attivazione dei recettori del gusto e dell’olfatto. In questo caso si tratta di altri recettori che possono essere attivati sia dalla temperatura (stimolo fisico) che da sostanze contenute in alcuni alimenti: il recettore dei vanilloidi TRPV1 è sensibile a temperature maggiori di 43°C e alla capsaicina, il composto responsabile del sapore piccante del peperoncino, mentre il TRPM8 è attivato da stimoli freddi (temperature comprese tra 8 e 28°C) e dal mentolo. Perciò la chemestesi può essere definita come l’attivazione chimica di recettori per stimoli fisici, i quali segnalano perciò un inesistente aumento (piccante) o abbassamento (fresco) di temperatura.
3) Oltre 2500 piante producono glucosidi cianogenici amari. Alcuni di essi contenuti nella manioca, ad esempio, sono tossici sia per l’uomo che per il parassita della malaria. L’uomo ha imparato a trattare la manioca prima del consumo al fine di renderla edibile, ma la detossificazione è raramente completa. Il recettore per l’amaro che riconosce queste sostanze è mutato e poco attivo (Soranzo et al., 2005) nelle popolazioni che vivono nell’Africa sub-sahariana, dove la malaria è endemica; ciò fa sì che l’amaro di queste piante sia meglio tollerato favorendone il consumo, il che conferisce una certa resistenza verso la malaria.
4) Utilizzo l’espressione “gusto fondamentale” entrata ormai nell’uso, ma sono promotrice dell’abbandono di questa dizione.
5) Di nuovo, è stata la clonazione molecolare che, grazie alla sequenza amminoacidica, ha permesso di classificare in modo molto più dettagliato queste proteine, fornendo le percentuali di omologia come unità di misura delle somiglianze tra i recettori, nonché di scandagliare il genoma umano alla ricerca di ipotetici nuovi recettori.
6) È da notare che di questo recettore, così come di quello per l’umami e di quelli per l’amaro (sono più di uno), si conosce solo la sequenza degli amminoacidi che li costituiscono e non la loro struttura tridimensionale.
7) La dolcezza relativa di un determinato composto viene calcolata preparando soluzioni del composto in esame a concentrazione nota e confrontandole (assaggiandole) con una soluzione standard di saccarosio al 3%. La soluzione del composto in esame viene diluita fino a quando risulta isodolce a quella del saccarosio 3%. Se, ad esempio, per ottenere la stessa dolcezza dello standard la soluzione è 100 volte più diluita dello standard, il composto in esame avrà una dolcezza relativa pari a 100.
Gabriella Morini
Università di Scienze Gastronomiche
Università di Scienze Gastronomiche
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