Fondamenti
Consideriamo le basi biologiche dell’alimentazione (quanto mangiamo e cosa mangiamo): esse sono essenzialmente collegate ad un complesso sistema di regole, valide per tutti gli organismi superiori, che possono essere ricondotte al paradigma della saggezza del corpo.
Difesa dell’immagine del corpo:
L’animale aumenta o riduce il suo apporto calorico quotidiano fino al ristabilimento del peso-forma
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Regolazione dei meccanismi di appetito-sazietà:
Il mantenimento del peso è determinato da uno stimolo periodicizzato di fame, relazionato al contenuto di glucosio nel sangue
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Equilibrio degli apporti nutritivi:
Sottoposto ad un regime carente in alcuni nutrienti, l’animale sa sciegliere gli alimenti che ristabiliscono un regime equilibrato
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Difesa dalle contaminazioni ed intossicazioni:
L’animale si difende all’inquinamento e rifiuta tutti gli alimenti associati ad un indizio di intossicazione
Queste regole hanno un fondamento biologico, ma sono insufficienti a spiegare completamente l’esito “culturale” delle scelte alimentari e dei protocolli di assunzione del cibo.
Forse hanno un minimo di fondamento le parole del semiologo Roland Barthes, quando affermava, nei suoi Elementi di semiologia, che “il nutrimento non è solo una collezione di prodotti soggetti a studi statistici o dietetici, ma anche, nello stesso tempo, un sistema di comunicazioni, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni, di comportamenti...", cioè un vero e proprio linguaggio autonomo, in cui i singoli alimenti costituiscono le parole, mentre le relazioni tra di esse (tecniche, abitudini, modalità di consumo) offrono quella che potremmo definire una sorta di struttura sintattica riconoscibile. Queste strutture logiche mettono le parole del discorso alimentare nella condizione di esprimere tanto bisogni e atteggiamenti collettivi, quanto opzioni individuali o di gruppo ristretto e rispondono sempre, in qualche modo alla superiore legge del Gusto.
Le principali relazioni interne del linguaggio alimentare, proposte dal semiologo francese sono quattro:
a) l’esclusione;
b) l’opposizione;
c) l’associazione;
d) la formazione dei protocolli d'uso.
Accorpandosi e separandosi, bilanciandosi a vicenda o integrandosi, evitandosi o ricercandosi reciprocamente, gli alimenti danno consistenza reale al complesso di espressioni che forma il discorso del cibo nella sua perfettibile articolazione. Sotto l’aspetto propriamente nutrizionale queste relazioni fanno sì che le parole-alimenti, si scompongano in nutrienti (le sillabe) e in elementi chimici (le lettere e/o i suoni) e si ricompongano tra loro in pietanze (le frasi), che a loro volta si aggregano in un menù (il discorso) e questi in regimi alimentari più complessi, ad es. una dieta (un testo). Considerandone invece le implicazioni culturali, potremmo invece concentrare l’attenzione sui seguenti spunti di riflessione.
L’esclusione
Le dinamiche di esclusione riguardano ciò che non entra in un modello alimentare e coincidono, più o meno, con i tabù alimentari, comunque motivati. Ogni popolo, ogni cultura individua, in modo più o meno consapevole, un certo numero di alimenti (consumati comunemente presso altri popoli e culture) che non possono rientrare nel modello. Si pensi al divieto di consumazione della carne di maiale e degli alcolici presso gli Arabi (Islamici) e gli Ebrei, all'esclusione del latte dal modello cinese o della carne di cavallo da quello statunitense. L'esclusione più vistosa dall'attuale modello alimentare europeo riguarda i vermi, gli aracnidi e gli insetti, ricercati, invece, per il loro specifico apporto proteico, da almeno la metà della popolazione del nostro pianeta, o addirittura come specialità gastronomica in molti Paesi dell’Est e del Sud-Est asiatici. Gli Indiani non consumano carne di vacca per prescrizione religiosa. L'antropologo americano Marvin Harris (nel suo Buono da mangiare), dimostra, numeri alla mano, che la norma religiosa non fa che tabuizzare un comportamento che sarebbe disastroso per il popolo indiano. Mangiando la carne delle mucche, gli Indiani sarebbero venuti a privarsi di tutte le altre fonti di approvvigionamento proteico che la mucca, nel corso dell'intera esistenza, mette loro a disposizione (cioè il latte e tutti i suoi derivati: la panna, il siero, il formaggio, il burro, lo yogurt ecc.), con un apporto energetico di molte volte superiore a quella che potrebbe offrire la consumazione diretta della carne.
Di norma i tabù investono comportamenti collettivi e di massa ed esercitano la loro influenza condizionando modelli generalizzati. Si può tuttavia considerare anche un diverso tipo di esclusione, non investito da tabù, ma comunque efficace all’interno dei gruppi culturali, che ha la sua origine nelle resistenze del gruppo ad accettare all’interno del modello alimentare tradizionale, o a realizzare l’approvvigionamento dei prodotti alimentari storicamente non presenti sul territorio e provenienti da altre realtà produttive. E’ il caso del burro, escluso dal modello gastronomico della tradizione toscana; del pesce di mare assente nelle zone lontane dalla costa; della pasta secca non usata nella cucina tradizionale delle regioni del Nord Italia e, per contro, della panna che non trova impiego gastronomico (diverso è il discorso per la pasticceria) al di fuori delle regioni alpine e padane.
Il rapporto individuale con il cibo, cioè il regime dietetico di una persona, può poi essere condizionato anche da esclusioni che, se non sono interdizioni in senso proprio - cioè comunitario - tuttavia producono effetti molto simili a quelle dei tabù. Tali esclusioni possono avere natura culturale, come nel caso dei vegetariani e dei vegetaliani, oppure psicologica, come accade all’individuo che non mangia la carne del coniglio perché nell’infanzia ha visto uccidere l’animale, così che continua a collegare al coniglio/alimento l'idea della morte, realizzando di essere in procinto di nutrirsi del cadavere di un animale.
Si può ipotizzare, per concludere, che tanto i tabù veri e propri quanto le esclusioni di gruppo e individuali condizionino in qualche modo anche le scelte sensoriali degli uomini, rimovendo dalla memoria intere gamme di sensazioni e modificando in parte anche la recezione degli organi di senso e i loro livelli di soglia.
L’opposizione
La dialettica delle opposizioni sussiste, al livello sensoriale più basso, tra unità (per il momento solo intuite e ancora tutte da determinare) del tipo dolce/amaro, dolce/acido, dolce/salato, oppure crudo/cotto, salato/insipido ecc., corrispondenti funzionalmente a quelle unità percettive che, secondo Alfred Adler, uno dei padri della psicologia del profondo, permettono la formazione della rete strutturale del pensiero logico, attraverso le cui coordinate il bambino, ben prima di andare a scuola, impara a decifrare con sicurezza i fenomeni circostanti. Si può, in sostanza, razionalizzare il valore di sapido solo e in quanto si conosca il valore del suo contrario insipido. I due termini si forniscono una reciproca referenza e l'evocazione di uno dei due porta necessariamente all'evocazione del termine contrario e al loro implicito paragone, da cui scaturisce il giudizio - la scelta o il rifiuto - individuale.
Secondo Claude Lévi-Strauss, l’opposizione fondamentale che precede e caratterizza tutte le altre relazioni alimentari riguarda lo “stato” dell’alimento e si rappresenta per mezzo del cosiddetto “triangolo culinario”. A ogni vertice del triangolo si colloca uno dei tre “stati”: “il crudo”, che rappresenta l’originaria condizione di non trasformazione del cibo; “il cotto”, in quanto trasformazione culturale del crudo; “il marcito” come naturale alterazione sia del crudo che del cotto. Ognuno dei tre stati si oppone agli altri due.
Oltre che su quelle appena indicate, che potremmo considerare come una sorta di a priori, ogni modello alimentare si sostiene su proprie contrapposizioni: si pensi alle nette opposizioni tra olio e burro e tra vegetali e carni nel modello cosiddetto mediterraneo; a quelle proprie di quasi tutta la cultura tradizionale, tra carne e pesce, tra vino bianco e vino rosso (i quali, secondo la cultura popolare, non si possono mischiare tra loro perché "fanno male"), tra il latte e il limone, tra il caffè e il sale. La gastronomia borghese del tardo Ottocento formalizza l'opposizione tra il pesce e il vino rosso, mentre la cultura giovanile contemporanea sembra superare il rifiuto reciproco tra la pasta asciutta e i sapori dolci (nutella, marmellata ecc.), rifiuto implicitamente accettato come “naturale” dai mangiapasta meridionali.
Spesso, nell'alimentazione tradizionale, costituiscono opposizione alimenti che non si rifiutano l'un l'altro in senso proprio, ma che hanno la capacità di bilanciarsi reciprocamente: sono opposti che vengono usati in associazione tra loro proprio in quanto opposti, perché le caratteristiche dell'uno neutralizzano gli eccessi (gustativi, nutrizionali o psicologici) dell'altro, secondo la regola fondamentale della medicina classica “quieta non movere et mota quietare”: il cavolo con i grassi animali, lo zucchero con il caffè, il prezzemolo con i funghi (v. § seguente).
Nell'indagine antropoculturale delle abitudini alimentari, l'analisi delle opposizioni appare di grande interesse. Solo facendo riferimento alla dialettica delle opposizioni è possibile farsi una ragione di molti usi alimentari della tradizione in relazione al contesto che li hanno ispirati. Un esempio: Perché nel Milanese e nel Comasco si consuma la trippa la notte di Natale? L'opposizione cromatica nero vs. bianco diventa, parlando del vino, rosso vs. bianco, cioè sangue (di cui il vino è ipostasi riconosciuta) vs. non sangue, cioè carne vs. non carne, allora la trippa, come alimento bianco è assolutamente non carneo e può essere consumato anche in giorno di vigilia, al pari del pesce, che era di non facile approvvigionamento nella Lombardia interna. Lo stesso pesce, che pure ha il corpo formate di carni, non simili a quelle del manzo o del maiale, ma pur sempre carni, non si considera, nella nostra cultura, alimento carneo, proprio in quanto ha carni bianche. Se indagata storicamente, questa distinzione è riconducibile alla cultura esoterica di matrice ermetica e pitagorica, secondo la quale quelle che per noi sono genericamente carni, e particolarmente le interiora, si distinguevano in carni e non carni, a seconda che venissero o meno considerate sedi della vita e fossero più o meno irrorate di sangue, che della vita è il carburante: il fegato è carne, la trippa è non carne. Distinzioni di questo tipo, d'altronde sono diffuse in tutte le culture, basti pensare alla discriminante puro/impuro, ammesso/non-ammess0, tipica della cultura ebraica, enunciata tra le regole del Levitico e basata, per quanto riguarda la selezione delle carni dei mammiferi, sulle opposizioni mangia erba/non mangia erba, ha lo zoccolo intero/ha lo zoccolo diviso.
L’associazione
Le leggi di associazione definiscono ciò che può utilmente essere riunito in uno stesso piatto (es.: pesce, aglio, prezzemolo), o formare pietanza completa (es.: un secondo con il suo contorno, pollo arrosto e patate fritte; ma in questo caso possiamo già intravedere la nascita di un protocollo d’uso). Una delle associazioni più antiche messe a punto dell'uomo è quella tra i cereali, i legumi e la carne di maiale, dalla quale si ricava una pietanza, che noi includeremmo nella tipologia del “minestrone”, ancora diffusa nella tradizione gastronomica di quasi tutte le regioni italiane. Altre associazioni tipiche della cultura tradizionale mediterranea sono quelle tra vegetali e prodotti di conserva, come salumi o formaggi: salame con i fichi, prosciutto con il melone, pecorino con le fave. La gastronomia medioevale associava gli alimenti di qualsiasi specie con grandi quantità di spezie, quella cinquecentesca la frutta con le carni cotte, quella ottocentesca la componente gustativa dolce con quella agra/salata (limone o aceto + sale + zucchero o miele).
Come è logico, le associazioni (al pari delle opposizioni) non sono immutabili. L'unione del dolce al salato e al piccante, tipico della gastronomia medioevale, oggi non è più accettato dal gusto comune, o almeno non è più gradito con quelle caratteristiche marcatamente agrodolci che costituivano il registro gustativo più diffuso del passato. Chi proviene da una tradizione di cucina povera italiana, difficilmente accetta l'associazione del ketchup con le patatine fritte (tipica del modello anglosassone), in quanto espressione di scelte gustative (e culturali) che gli sono estranee e che invece sono familiari alle giovani generazioni che non hanno conosciuto direttamente la tradizione contadina e vivono la cultura mediatica del villaggio globale.
Non è raro che una associazione sia basata, come abbiamo già notato, su un’opposizione, sia di natura sensoriale, sia di natura culturale. Si mette normalmente dello zucchero nel caffè per mitigarne l’amarezza, ma si cuociono molto spesso i legumi con il rosmarino e l’aglio, perché nella farmacopea antica i legumi erano considerati uno dei ricettacolo preferiti dai demoni, e avevano la prerogativa di rendere i sonni agitati e tempestosi. Nella stessa visione prescientifica, l’aglio era considerato il più potente antidemoniaco naturale a disposizione dell’uomo; e il rosmarino si reputava capace di garantire sonni tranquilli e di cancellare dalla mente dell’uomo i brutti sogni.
La formazione dei protocolli d’uso
I protocolli d'uso, cui Barthes riconosceva la funzione di una sorta di retorica del cibo, sono da intendersi come insiemi di esponenti capaci di identificare, nel modo più ampio una cultura alimentare e/o gastronomica. Nei protocolli d'uso si possono comprendere tanto le ricette consolidate dalla tradizione, cioè i singoli piatti (o protocollo semplice), quanto le modalità complessive di strutturazione di un pasto (protocollo complesso), oltre alla codificazione dei comportamenti che presiedono la preparazione e la consumazione del medesimo. Il nascere e il sussistere di abitudini alimentari diffuse si intrecciano in modo così complesso con problematiche di altro tipo (scientifiche, antropologiche, filosofiche, estetiche), tali da lasciare intravedere un momento più alto della riflessione culturale sul cibo, quale si andrà prospettando con il procedere del nostro discorso.
Esemplicazione
Volendo delineare a grandi linee la struttura di riferimento delle tradizioni alimentari in un’area (di luogo o di tempo) circoscritta, torna dunque utile analizzare l’alimentazione come una lingua, un protocollo di comunicazione.
Già ad un livello puramente simbolico, esistono infinite analogie fra atto alimentare e struttura di comunicazione: le lingue vive (soprattutto i dialetti) censiscono un’infinità di variazioni semantiche intorno al cibo, anche a testimonianza della centralità dei protocolli di uso e consumo del cibo nelle vicende di sopravvivenza. Un’altra fonte di documentazione di queste analogie (che qui non abbiamo la possibilità di approfondire) sono i detti e i proverbi, che recepiscono la necessità di tramandare piccole regole ed osservazioni e che dunque sono il succo della saggezza popolare. Anche in questo caso i riferimenti alimentari sono abbondanti.
Nel caso della cucina lombarda, la ricchezza semantica delle parole riferite al cibo, è ben riassunta dalle riflessioni riportate da F.Bassani (uno studioso di tradizioni locali), qui di seguito riportate, e che possono valere come esempio e traccia di una ricerca ancora solo abbozzata dagli etnografi.
Le variazioni semantiche del mangiare
(in riferimento al dialetto brianzolo e comasco, da F.Bassani, El mangià di nost vecc, Bertoni Ed., Merate (Co), 1980)
".... Oggi si dice mangià, ma un tempo majà era molto più comune, cosiccome era molto più comune l’iterativo majocà... e quel majà o majocà lascia intravvedere, più che l’appetito, la fame di gente che non naviga certo nell’abbondanza. E chi è costretto a tirare sempre la cinghia non aspira poter fare, almeno una volta all’anno, una bella majada (abbuffata), così da sentirsi finalmente segoll (satollo)? ... Il popolo inventa allora pacià e paciada (qualcosa come “scorpacciata”). Il suono stesso di questo intraducibile pacià ci fa immaginare il movimento della bocca e delle ganasce, ce ne fa sentire il rumore, ci fa cogliere un senso di piena soddisfazione ....
..... Ai piccini non si lasciava mai mancare il cibo, anzi piaceva vederli paciotà (cioè mangiare spesso ed abbondantemente). Il bambino bianco-rosso e paffuto, grasso come un maialino, è il paciarott: .... i genitori ne vanno fieri ... e così lo lasciano paciotà, magari fino a ingusàs.
Ma crescendo imparerà anche lui a cumpesà, come tutti gli altri. Il verbo cumpesà è certamente il più adatto a indicare il modo di mangiare di un tempo, significa proprio “mangiare con peso, con misura”, giacchè la pietanza a disposizione è quasi sempre scarsa. E’ la regiura di casa che raccomanda a tutti di cumpesà, mentre serve in abbondanza polenta e pangiallo (che di solito non si misurano) ....
Appena spuntati i denti, il ragazzino si impegnava subito a sgagnà o a cagnà (mangiare con morsi vigorosi) ... Ma la gente, che imparava subito ad accontentarsi di poco, si compiaceva in mancanza di meglio anche di sgandulà allegramente qualcosa di duro e gustoso. Anche questo sgandulà è intraducibile e ci fa immaginare uno che fa passare con gusto da una parte all’altra della bocca la gandùla (il nòcciolo) di un frutto, succhiando, leccando, quasi a prolungare il gusto di qualcosa che sta per finire.
Majà, pacià, cumpesà, sgagnà, sgandulà: tanti modi di dire mangiare, quando da mangiare c’era poco ....
Ma lasciamo queste analogie, per ritornare ai segni ed ai significati.
Come tutte le lingue e gli idiomi alla base delle abitudini alimentari di un individuo o di un gruppo c’è infatti un insieme di regole e strutture “semantiche”: un alfabeto (i nutrienti), delle parole (gli alimenti), delle costruzioni logiche (le formulazioni), delle costruzioni retoriche (i menù, i protocolli d’uso).
Ogni parola (alimento) è costituita da alcune lettere dell’alfabeto (nutrienti) in forma tale da rappresentare un’unità inscindibile e significativa: la parola (come l’alimento) latte indica una precisa combinazione di lettere (nutrienti) che hanno un senso compiuto. Ma come pronunciando la parola latte perdiamo il controllo sulle unità alfabetiche, altrettanto consumandolo non abbiamo più la coscienza delle sue unità nutrizionali costitutive. L’espressione delle parole si manifesta in fonemi e sonorità basate sull’alfabeto costitutivo: altrettanto succede per le caratteristiche sensoriali degli alimenti.
Le abitudini alimentari si basano dunque sul consumo di certi alimenti, che per disponibilità e tradizione, rappresentano un universo di riferimento, tanto sul piano nutrizionale che su quello sensoriale.
Il secondo livello di analogia con le regole linguistiche riguarda il fatto che noi consumiamo gli alimenti prevalentemente sotto forma di formulazioni.
La formulazione soggiace a certe regole (associazione fra alimenti, opposizione o combinazione sensoriale, esclusione o inclusione, vedi capitolo successivo) cosiccome una costruzione logica, nelle diverse lingue, prevede strutture obbligate. Il pane con il salame costituisce una frase alimentare e, altrettanto che in una lingua, presuppone un costrutto logico (del tipo soggetto + predicato + complemento): nel caso alimentare la regola è quella dell’associazione delle unità semantiche (alimenti) in forma nutrizionalmente e sensorialmente complementare.
Sempre con riferimento alle tradizioni alimentari lombarde, consideriamo, quali regole di inclusione, alcuni protocolli di combinazione che recuperano risorse altrove bistrattate od escluse (frittata con le ortiche, polenta e ghiri, lumache trifolate, testina di vitello, interiora quali la trippa o i rognoni).
Oppure le regole di opposizione sensoriale fra ingredienti (per la consistenza, nel caso lombardo: castagne e verze, o sciatt – ricopertura verso imbottitura -; per il gusto la dialettica dolce-salato dei tortelli di zucca o quella dolce-amaro di alcuni dessert in cui compaiono come ingrediente zucchero e frutta secca insieme ad amaretti e cacao amaro) o fra significati simbolici (la rusumada, ovvero uova verso vino rosso).
Ma più ancora le regole di associazione/opposizione trovano puntuale verifica nella varietà di formulazioni possibili, partendo da pochi ingredienti. Sul legame farina di cereali-formaggio, ad esempio, si contano una ventina di variazioni fra i piatti più noti lombardi (casonsei, pizzoccheri, strangolapreti, ravioli, margottini, polenta pasticciata ecc.).
A questo livello, sono gli usi, l’impiego di ingredienti secondari ed il sapere cucinario ad identificare una variabilità gustativa e nutrizionale che supera la costrizione dettata dalle poche risorse principali: la polenta va con il lardo o il burro (polenta uncia), con i saracchi, con la salvia, con il latte, con il formaggio, con gli uccelletti; il riso va con il burro, il pesce di acqua dolce, con le rane, con il prezzemolo, con i legumi; all’uovo si combinano ortiche, erbe selvatiche, asparagi, ecc. Ed il risultato è in ogni caso un piccolo miracolo di architettura cucinaria.
L’ultimo livello delle analogie fra linguaggio ed alimentazione riguarda il menù, cioè la scansione delle vivande.
Questa costruzione retorica equivale ad un discorso compiuto, in cui le unità semantiche (alimenti) ricorrono anche in più frasi. Come in un discorso, nel menù esistono delle premesse, delle parti accessorie o di contorno, delle strutture essenziali o significative. Così, per nutrirsi o dire una cosa, esistono menù a piatto unico e discorsi sintetici piuttosto che grandi abbuffate e costruzioni retoriche ridondanti, anche logorroiche.
Considerando le tradizioni pauperistiche, appare evidente la semplificazione delle costruzioni retoriche: il pasto è prevalentemente basato sul consumo di piatti unici e su strutture essenziali. La ritualità è ricostituita con una scansione generalmente settimanale, in cui il pasto del giorno festivo è un poco più ricco e variato. Se ci si “abbuffa” è solo nelle occasioni comandate: a Natale, nei pranzi rituali di fine raccolto, in occasione degli sposalizi.
Tratto da portale http://www.unimi.it
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